Parla il mitologico patron dell’Harry’s Bar di Venezia: “La cucina italiana è ormai la brutta copia di quella francese. Cracco e Vissani hanno un atteggiamento demenziale. Propongono il menu degustazione. Ma se spendo fior di quattrini posso farmi imporre quello che devo mangiare?" - "La Michelin? La guida dei copertoni" - "Il Mose? L'unico che non ci ha mangiato sono io..”
83 anni e con due ore di ginnastica al giorno, può prendersela con chiunque. Da Carlo Cracco a Giuseppe Vissani, “chef da televisione, quelli che mettono la liquirizia e il pomodoro sulle patate”, ai ladroni che si sono rubati Venezia con il Mose, “la grande opera che serviva solo a far quattrini”.
Di guai ne hanno passati anche lui e il suo gruppo, evasione fiscale negli Stati Uniti, debiti altrove, ma Arrigo Cipriani è sempre dritto, lì, a tre passi da piazza San Marco dove suo padre iniziò quella fantastica storia d'amore e di cucina che si chiama Harry's Bar. Può anche non piacere, ma è diventato un marchio del made in Italy, come e non meno di Giorgio Armani o Valentino, quasi quanto la Ferrari.
Una storia, quella conosciuta ai comuni mortali, iniziata nel 1949, quando per una serie di coincidenze Ernest Hemingway si trasferì a Venezia per scrivere un romanzo e fece del ristorante del vecchio Giuseppe, il padre di Arrigo, la sua mensa.
Diventarono una sorta di fratelli, maggiore e minore, a ruoli assolutamente intercambiabili. Fu in una di quelle sere che nacque il Bellini. Ma soprattutto l'amicizia e le porte di un paradiso della cucina italiana. Molto semplice, austera, quasi, ma di lusso. Costosa, fatta di tovaglie di lino e piccole accortezze, ma che fanno di un locale un concetto da esportazione: oggi Cipriani sono 22 ristoranti in tutto il mondo, 700 chef e qualche migliaio di dipendenti. Arrigo resta nella sua Venezia, scrive libri, ne ha fatti nove.
Ha raccontato gli altri e si è raccontato. Lo hanno citato, come ha fatto Fabrizio De André, che per una scena di un suo brano, Rimini, lo trasferisce in un non luogo, purché si veda il mare. Non solo: nel 2001 il locale è stato dichiarato patrimonio nazionale dal ministero dei Beni culturali.
La storia del locale è povera, una cosa da anni Trenta: Cipriani, portiere d'albergo, presta diecimila lire a un giovane americano, alcolista, che usa quei soldi per tornare a casa e curarsi. Quando torna a Venezia gli restituisce il prestito più altre 30 mila lire che gli consentono di aprire il locale tutto suo. Che si chiamerà Harry, proprio come quel ragazzo.
Buon giorno Mr Arrigo, da dove partiamo?
Dal segreto dei suoi 83 anni? Anche. Ginnastica tutti i giorni, il resto lo fa Venezia.
E la preghiera perché il signore la mantenga in salute?
Passata una certa età accade. Sì, certo. Può accadere. Le genuflessioni dei musulmani fanno bene, sono certo che nessuno ha problemi alla schiena, e le panche da chiesa rinforzano le ginocchia. Non è il caso mio.
Non è credente?
Forse sono blasfemo. Agnostico. Non mi rivolgo a nessun signore per la mia salute, faccio molta ginnastica, credo che aiuti.
Proviamo a ripartire: esiste un concetto di lusso?
Certo. Lo insegno all'università di Cà Foscari. E se lo vogliamo spiegare in due parole il lusso è la semplicità coronata da tanti piccoli dettagli. L'ambiente ha un'anima, ma l'anima è semplice. Esistono le lenzuola di lino e il piatto rotondo. Quella è il lusso.
Oggi tutti i ristoranti propongono piatti rettangolari, lunghi, storti. Quelle cose che non sono da cucina ma fanno design.
Esatto. Con loro me la prendo. Perché il piatto deve essere rotondo. E le posate piccole. Non hanno senso i forchettoni che si usano oggi, e mi riferisco sempre a quelli chef molto stellati nelle guide dei copertoni, quella francese.
La guida Michelin?
Non so come si chiami, per me è la guida dei copertoni.
Si deduce che non segua reality e chef barbuti e belli?
Ma per carità, ho difficoltà a chiamarli cuochi, figuriamoci chef. Io non sono un cuoco. Ne ho tanti, ma loro stanno in cucina, io faccio il proprietario, quello che segue con attenzione il cliente, lo fa sentire a casa.
Cosa insegna ai camerieri?
Tutto quello che ho imparato da mio padre e che oggi non esiste più. Oggi vai in questi ristoranti pentastellati e ti dicono: “Ecco il caffè”. Posso licenziarlo un cameriere che dice una fesseria del genere. Il cliente lo sa che è il caffè o un risotto, lo conosce e me lo ha chiesto lui. Non è mica deficiente.
Cosa non le piace di Vissani e Cracco?
A parte quello che cucinano? Niente. Per me hanno un atteggiamento demenziale. Propongono il menu degustazione. Ma le pare che se vado a ristorante e spendo fior di quattrini posso farmi imporre quello che devo mangiare? Finita la libertà, finisce tutto. Non è più lusso, è un'altra cosa. Lo fanno per far vedere che sono bravi.
Cos'è la cucina italiana oggi?
È diventata la brutta copia di quella francese. Destinata a perdere. La mania del designer, dei locali scintillanti senza nessuna sostanza. Come quando vado in una camera d’albergo e mi propongono una camera tappezzata da copie del Tintoretto, il lavandino piccolo e stretto, ma bello da vedere. Mi faccio cambiare stanza. Io voglio dormire in un letto, non sulle pareti o in bagno. Voglio essere avvolto da lenzuola di lino croccanti, cuscini e materassi di qualità. Quello è lusso. Non i quadri.
La colpa è della televisione?
La smania di apparire ha una grande responsabilità. Poi non si sanno neanche vestire. Portano i jeans e la giacca aperta. Nella giacca ci sono i bottoni perché deve essere chiusa.
Non ne salva uno dei suoi colleghi?
Salvo le osterie del Veneto, dove vado spesso. L'Assunta madre a Roma è un buon ristorante perché propone pesce fresco senza troppi fronzoli: fresco e cucinato. Sono questi i luoghi dove trovo i miei clienti. Vuol dire che il nostro modello ha funzionato.
Lei si ricorda di Hemingway?
Sì, lo ricordo con papà. Io allora ero molto giovane, ma soprattutto non parlavo l'inglese. Pagavano poco, comunque. Le grandi star non sono abituate a pagare.
Davvero? Sono affezionati al denaro?
Mi ricordo che una volta, dopo una settimana e passa che Orson Welles si sedeva al tavolo del nostro ristorante, dissero che stava per partire. Mio padre mi disse: corri alla stazione e fatti pagare. Lo feci.
E il maestro come reagì?
Dal finestrino del treno mi allungò una mazzetta con i travellers cheque. Ma non erano firmati, glielo dissi. E lui, con quel vocione: ragazzo, la firma mettila tu. Così ho firmato anche Orson Welles nella mia vita. Non mi sono fatto mancare nulla. Un uomo meraviglioso. Quando parlava dentro al locale lo sentivano a un chilometro di distanza.
Lei è amico di Woody Allen, giusto?
Sì, è uno dei nostri clienti. Una persona di poche parole. Una volta sorrisi moltissimo perché lo vidi che si alzava da un tavolo e si avvicinò a una signora. Osservai la scena e ascoltavo. E lui: signora, può smetterla di guardarmi con questa insistenza? Educato, calmissimo come lo è lui.
Suo collega e anche cliente è Robert De Niro: vero che è di poche parole?
Quasi timido. Hai l'impressione che si annoi ovunque sia. Martin Scorsese racconta che spesso, a casa di amici in comune, lui si addormenta. Ormai neanche ci fanno più caso. Quando è in Italia è molto divertente perché si impunta a voler parlare l'italiano e ne esce fuori un dialetto meridionale molto strano. Divertentissimo.
Altri clienti celebri?
Farei prima a dirle quelli che non sono nostri clienti. Tutti sono passati da qui. E quando c'è la mostra del cinema può immaginare.
Lei non accetta prenotazioni. È un vezzo?
No, è semplicemente che noi abbiamo anche un bancone del bar. Chi arriva, se i tavoli sono occupati, può sedersi e aspettare con un Martini. È normale. Comunque non è vero che non accettiamo prenotazioni, è che hanno un valore assolutamente simbolico. Non lascio un tavolo in attesa di qualcuno. Dieci minuti di attesa non hanno mai ucciso nessuno.
E anche le celebrità si piegano alla regola?
Ogni tanto chiamano i portieri d'albergo e annunciano vip. E io rispondo: cosa vuol dire vip? Sono fatto così. Comunque il divo non ha bisogno di troppi capricci. Il divo vero, intendo. Non mi chiedono di cambiare tavolo, non è quasi mai accaduto.
A quale ristorante nel mondo, tra i suoi, è più affezionato?
Ernest Hemingway
Il primo aperto a New York, nel 1985. Perché fu appunto il primo. Facevamo 350 coperti al giorno. Dovemmo chiudere perché ci sfrattarono e aprirono un altro ristorante. Faceva 15 persone al giorno. Quando ce lo riprendemmo il giorno dopo c'erano già 350 persone. Quelle che avevamo lasciato. E a New York, dove tutto passa molto velocemente.
Quante persone lavorano nel suo ristorante a Venezia?
Settanta. Per 70 metri quadrati. Questo è il lusso.
Da veneziano, le ha fatto male lo scandalo del Mose?
Io amo la mia città. Soffro nel vederla come è ridotta oggi. Quando sono cresciuto c'erano duecentomila abitanti, oggi sono sì e no quarantamila. Ha perso l'anima. E il Mose è stata la coronazione di tutto questo. Era sotto gli occhi di tutti che è un'opera inutile pensata solo per mangiare.
L'unico che non ci ha mangiato sono io che ospitavo i responsabili dei lavori e alla fine mi chiedevano anche lo sconto. Ma nessuno può dire di non sapere. Era sotto gli occhi di tutti che stavano rubando. Poi è inutile. Entra in funzione quando l'acqua è a 120 centimetri. Noi nell'alluvione del 1966 abbiamo avuto l'acqua così alta. E il giorno dopo avevamo già aperto. Parliamo veramente del niente.
Le piace il candidato sindaco Felice Casson?
Sì, lo voto. Ha le idee chiare, è persona stimabile e perbene. Ha il mio voto.